Julián

 

La verità è che il più delle volte i pezzi si incastrano troppo tardi, quando ormai non si può fare niente, per cui a che serve sapere certe cose? Sandra era tornata alla sua vita normale e noi eravamo corsi verso i nostri rispettivi destini. Al momento il mio erano I Tre Ulivi e Pilar. Quel giovedì, come tutti i giovedì, Pilar mi venne a prendere presto. Facemmo un bel giro in macchina mentre ascoltavamo canzoni messicane, ci fermammo a mangiare in un ristorante dall’aria invitante e, come sempre, pagò lei; poi tornammo in paese per fare alcune compere. La nostra prima sosta fu nella sua boutique preferita. Per me era incomprensibile che sprecasse tutto il suo tempo e i suoi soldi con uno come me, ma eravamo lì, lei che si provava i vestiti per il veglione di Capodanno e io che cercavo un posto dove sedermi.

E fu tra un vestito di velluto nero e un altro, mi pare rosso, che sentii una voce di donna al mio fianco.

«Mi scusi, posso parlarle un attimo?»

Mi girai verso di lei. Il cagnolino che teneva in braccio mi abbaiò contro.

Era una ragazza fra i trenta e i quarant’anni, con i capelli rossi legati in una coda di cavallo. Era magra e muscolosa, si vedeva lontano un miglio che faceva molto sport. Portava dei jeans e una cerata gialla foderata di blu, come quelle dei marinai dei film. Feci qualche passo indietro per guardarla meglio. Aveva un’aria familiare, l’avevo già vista.

«Sono un’amica di Alberto, l’amico di Sandra. Lei è... Julián. Erano settimane che la cercavo, e quando ormai avevo perso la speranza... l’ho vista entrare nel negozio.»

«Lei è quella che stava con l’Anguilla in spiaggia.»

«L’Anguilla? Chi è l’Anguilla?»

«L’ho vista con Alberto in spiaggia, qualche mese fa, in atteggiamento intimo, può essere?»

Annuì. Pilar uscì dal camerino e girò sui tacchi. La gonna doveva essere di paillette, perché quando si muoveva luccicava.

«Molto carina», le dissi. «Ti aspetto fuori.»

Uscimmo e istintivamente attraversammo la strada fino alle panchine di fronte. Il freddo umido entrava nelle ossa.

«Mi chiamo Elisabeth.»

A Elisabeth si stava arrossando la punta del naso. Si presentava bene anche se non si poteva dire che fosse bella. Accarezzò il cane e lo mise a terra. Legò il guinzaglio alla panchina. Stese le braccia come se le si fossero intorpidite.

«Alberto mi ha detto che se gli fosse successo qualcosa avrei dovuto cercarla e parlare con lei. Anch’io la vidi quel giorno in spiaggia, ci stava spiando.»

Ci sedemmo sulla panchina e ci infilammo entrambi le mani in tasca. Ebbi il presentimento che mi stesse per raccontare qualcosa di brutto, una di quelle cose che rendono la vita cupa.

«Alberto è morto. O meglio, lo hanno ucciso.»

Eccola lì la cosa che rendeva la vita schifosa.

«Era un infiltrato nella Confraternita e io ero il suo contatto. »

«Polizia?»

«Qualcosa del genere. Investigatori. Lo hanno scoperto e lo hanno tolto di mezzo. Un incidente, sa. Ma io so che non è stato un incidente.»

La notizia mi lasciò paralizzato. Non riuscivo a reagire. Il passato continuava a ingrassare a furia di disgrazie. L’Anguilla era rimasto per sempre nel passato, mentre Sandra probabilmente navigava verso il futuro. Solo Heim, Elfe e io eravamo bloccati nel circolo del presente fin quando Heim non fosse impazzito del tutto, Elfe non fosse uscita dall’ultimo delirium tremens e a me non fosse venuto l’infarto definitivo.

«Mi dispiace», dissi. «Ha aiutato Sandra e credo che nonostante tutto abbia cercato di aiutare anche me.»

«Ora stiamo cercando i Christensen, Alice e Otto. Hanno paura, e non solo di noi. Sembra che ci siano altre persone sulle loro tracce. Sappiamo che si sono nascosti. Possono essersi rifatti una vita in qualsiasi cittadina. La costa è molto lunga. Crediamo che Heim sia fuggito in Egitto. Di Elfe non c’è traccia.»

La guardai negli occhi senza dire niente. Li aveva azzurri, ma non si potevano paragonare a quelli tra il verde e il marrone di Sandra, che ti facevano ridere da dentro. L’Anguilla ed Elisabeth non formavano una bella coppia. Era evidente che non poteva esserci stato niente fra loro. Probabilmente quel giorno sulla spiaggia avevano fatto finta di abbracciarsi e di baciarsi. Come mi sarebbe piaciuto dire a Sandra: “Sai? L’Anguilla e quella ragazza erano solo colleghi di lavoro, un lavoro troppo pericoloso. E vorrei anche chiederti scusa per essermi permesso a volte di perdere un po’ la testa e che i miei pensieri verso di te non fossero sempre onesti come meriti. In qualche momento mi ero illuso di essere giovane anch’io e, come già sappiamo, ho abusato della tua fiducia sulla faccenda del cagnolino. Sandra, sono ripugnante”.

«Ad Alberto piaceva quella ragazza, Sandra. Diceva che quando era accanto a lei gli veniva voglia di ridere e di spaccare il mondo e che gli era capitato ben poche volte nella vita, ma disgraziatamente l’aveva conosciuta nelle peggiori circostanze possibili.»

«Ormai non conta più», dissi impotente.

«Sì», fece Elisabeth con lo sguardo fisso a terra, «è strano come vanno le cose.»

Quando vidi Pilar uscire dal negozio e venire verso di noi, mi alzai dalla panchina. Elisabeth fece lo stesso e slegò il cane.

«Si chiama Pallina», disse.

«Lo sapevo già», risposi, «e non sa cosa farne di lui. Gli si è affezionata ma al tempo stesso è un peso, vero?»

Annuì e, contro ogni previsione, sorrise un po’.

Presi in braccio Pallina. Pesava molto, i cani crescono rapidamente.

Mi leccò il collo e lo misi di nuovo per terra.

«Lo terrò io. Ho molto tempo libero e una casa con giardino, ma non potrà fargli visita, d’accordo? Il padrone deve essere uno solo.»

Elisabeth gli accarezzò la testa e la schiena un’ultima volta e non lo guardò più. Sapeva come lasciarsi alle spalle quelli che amava.

«Sarà meglio che mi dica tutto quello che non so.» Rimase in silenzio per un momento, usando la tattica di guardarmi negli occhi senza sbattere le ciglia. «Non voglio che finisca tutto qui.»

«Già», dissi mentre le davo le spalle per andare verso Pilar tirando il guinzaglio del cane.

«So che non vive più al Costa Azul, dove la posso trovare?»

Mi limitai a farle un gesto di addio con la mano e presi uno dei sacchetti che portava Pilar.

«Chi è quella?» chiese lei piena di curiosità.

«Un’ammiratrice. Credo di non averti detto che sono stato una stella del cinema.»

Pilar si aggrappò al mio braccio guardandomi sottecchi, chiedendosi se fosse vero che ero stato una stella del cinema muto.

«E questo cane?»

«Un regalo dell’ammiratrice. Ci serviva un cane.»

Ci mettemmo a camminare tutti e tre. Elisabeth ci stava sicuramente osservando, e se non gettava subito la spugna e non si dimenticava di questa storia, avrebbe finito per trovare I Tre Ulivi e quindi Heim ed Elfe.

Dal canto mio, per diverse sere, indossando gli occhiali con le lenti a fondo di bottiglia sotto la luce di una lampada da tavolo, mi dedicai a scrivere una lunga lettera a Sandra ricordando le avventure che avevamo vissuto insieme e la consegnai a Pilar perché gliela spedisse dopo la mia morte, come aveva fatto Salva con me. Ebbi il dubbio se raccontarle o meno che l’Anguilla era morto in un incidente d’auto sospetto (nel quale non potevo evitare di riconoscere la mano di Martín) e che non avevo mai pensato sul serio che con quella ragazza della spiaggia avesse una storia d’amore, ma che era un contatto di altro tipo. Ma alla fine non glielo dissi, perché speravo che nella sua vita sarebbe arrivato un amore tanto grande che avrebbe messo fine all’illusione della storia con l’Anguilla senza che dovessi essere io a togliergliela. E non le dissi neppure che ero riuscito a trovare Pallina, che da allora stava all’ospizio, e che io e Pilar lo portavamo a correre sulla spiaggia.

Intanto, mentre si avvicinava il giorno in cui quella lettera sarebbe stata spedita, mi dedicai a far impazzire Heim. Sapevo come farlo, me lo avevano insegnato loro.

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